Inutile nascondersi dietro a una foglia. Chi scrive in linea di massima ama farsi leggere. Mica per voglia di protagonismo. Non sempre almeno. Direi più per condividere, per emozionare, nel bene e nel male. Per avere conferme e "sconferme". Per vincere o perdere.
E poi dicono che scrivere è terapeutico. Si scrive di sé. Si scrive di un altro sé.
Scrivere ti restituisce ad un mondo in cui tutto è possibile.
Per tutti questi motivi ho deciso di infilare, tra aghi filo e tessuti vari, i racconti della fantasia.
Chissà se è cosa buona e giusta. :-)
ANCHE TU TI CHIAMI ERNESTO
Quel giorno
passavo per caso in via Arturo Aragosta e venni fermato dalla solita maledetta
mia curiosità proprio di fronte al Palazzo delle Relazioni Pubbliche. Davanti
alla porta d’ingresso del salottino di rappresentanza una lunga coda di gente
attendeva ordinata il suo turno. La prima della fila era una donna sulla
cinquantina, con lunghi capelli argentati raccolti a cipolla in cima alla testa
e un abitino distinto da professoressa che la faceva sembrare un baccalà già
essiccato...
Mentre stavo
osservando incuriosito la varietà inspiegabile di soggetti che frequentavano
quel luogo, un omino occhialuto si affacciò dalla finestra e chiamò a gran
voce: “Margherita Gigliotti, Margherita Gigliotti si accomodi in fretta!”
Allora d’istinto
tornai veloce con lo sguardo al baccalà piazzato davanti all’ingresso, ma, con
mio grande stupore, quello non si mosse! Ad avanzare di gran passo fu invece
una tipetta che stazionava più o meno a metà fila. Aveva l’aria di sapere il
fatto suo. Camminava bella dritta e con passo sicuro e leggero, nonostante i
tacchi a spillone e la borsa/valigia che portava appesa al braccio. Appena ebbe
raggiunto l’ingresso, sparì. “Che roba”, pensai, quando l’occhialuto gridò di
nuovo dalla finestra: “Ernesto Maltagliato, Ernesto Maltagliato si accomodi in
fretta!”
“Porca
puttana!!!”, Ernesto Maltagliato ero io!!! Guardai la fila, cercando di vedere
se un mio omonimo stesse partendo di corsa verso la porta, ma niente. Avevano
chiamato proprio me. Ma che volevano? L’omino non si muoveva di lì, anzi lo
vidi che stava gridando di nuovo il mio nome, cosa che da sempre mi dà un
fastidio cane. Primo perché mi ricorda mia madre quando, anche di domenica, mi
chiamava alle sei in punto di mattina, alle sei in punto, dico, di domenica
mattina!, per farmi rasare i dieci metri
quadri di prato davanti a casa. Secondo perché ho sempre detestato il mio
cognome cazzuto! Ma come si fa a chiamarsi Maltagliato? Che poi oltre a essere
il nome di una pasta, e fin qua lo si poteva pure accettare, a scuola lo
usavano come cantilena ogni volta che mi beccavo un’insufficienza… Quindi,
prima che quello arrivasse a metà di Ernesto, alzai la mano e mi tuffai con
rabbia dentro a quella stanza.
E ora viene il
bello. Praticamente ero finito dentro a un gioco, un perfido gioco. I
partecipanti di quel turno eravamo io e quell’altra, la Margherita Gigliocci o
Gigiocchi, anzi Gigliotti. Ma partiamo dall’inizio.
Tanto per
cominciare, come fui dentro mi trovai subito a mio agio. La coda fuori sembrava
sparita. Tutto era assolutamente in ordine, chiaro e pulito, direi formale. Una
musica classica di sottofondo addolciva l’atmosfera e lasciava presagire a
qualcosa di buono.
Margherita
Gigliotti, che di qui in poi chiamerò, affettuosamente?, “La Gigliotta”, stava
già seduta sul sofà bianco panna ed era intenta a scribacchiare messaggi sul
suo cellulare. Mi diressi verso di lei, giusto per non essere maleducato, e mi
presentai. “Buongiorno, mi chiamo Ernesto” e le tesi la mano. E quella sapete
che disse??! “Buongiorno Maltagliato”, disse!,
irritandomi non poco, e poi continuò il suo lavoro di scrittrice
dell’era tecnologica… Al che mi rimisi in tasca la mano mortificata, sentendomi
in colpa per averla mandata al patibolo, e presi posto anche io sul sofà. La
porta dalla quale eravamo entrati era ancora spalancata verso l’esterno, ma,
come vi ho già detto, non riuscivo a vedere fuori. Le pareti erano colorate di
un azzurro carta da zucchero molto leggero. Tutti i mobili erano bianco-panna
come il sofà. I quadri, classici, appesi ai muri, rappresentavano paesaggi
bucolici. L’aria profumava di vaniglia. In pratica, l’atmosfera era talmente
soffice e rarefatta che per poco non presi sonno. A svegliarmi dal mio torpore
fu il telefono della Gigliotta che partì d’improvviso tuonando un valzer di
Strauss, che mai, dico mai!, fino ad allora avevo così detestato! Rollai sul
divano, volteggiando il braccio in aria, scosso e fremente (ammetto che la
scena deve essere stata alquanto ridicola…) e come mi volsi verso di lei, la vidi
ridere col fare di chi ha pena di te!
Beh, chi mi conosce di certo indovinerà la mia reazione! Raccolsi in un
lampo le poche risorse vitali che mi erano rimaste e le ficcai negli occhi lo
sguardo più fetente, torbido e perverso che, riconosco pure io, avevo mai fatto
in vita mia! In pratica ormai la credevo spacciata! Già la vedevo saltare in
piedi, prendere le sue cose, uscire di corsa dalla porta. E invece quella, la
Gigliotta, mi tornò un ghigno da topo, cigolando le seguenti quattro parole:
“Non le piace Strauss?”
Ecco, che
rispondi a una così? Stavo prendendo rincorsa, il viso vampava di rosso quando…
!GlinGlon! “Il
Signor Ernesto Maltagliato passi nella stanza numero tre”.
“Ancora, cazzo!
Ancora con sto Maltagliato! Vi autorizzo a chiamarmi Ernesto, Ernesto e basta!”
Lo pensai solo, lo ammetto, ma credetemi che stavolta per poco non glielo
gridavo in faccia.
Detto fatto,
l’occhialuto mi prese sotto braccio e mi condusse attraverso un cunicolo
all’interno di una topaia, che loro con coraggio chiamavano la stanza tre.
La luce quasi
mancava. La poca che c’era entrava come di soppiatto dalle fessure delle
vecchie imposte chiuse. Man mano che gli occhi si abituavano alla semi oscurità
il caos che regnava nella stanza cominciava ad apparire in tutta la sua
brutalità. Da ogni parte c’erano scatoloni accatastati, alcuni strabordanti,
tutti ricoperti di polvere. Lungo le pareti, a correre, scaffali di legno
grezzo pieni di libri e fascicoli. Poi
bauli, bauli e bauli, di ogni materiale, delle più svariate forge.
“Ah, eccoti qua
Ernesto, vieni vieni, siediti comodo e dimmi, qual è il problema?…”
Secondo scossone
della giornata! A breve distanza dal primo, tra l’altro. Se questo era parte
del gioco, beh, non sarei arrivato a sera. L’energumeno che aveva parlato era
uscito d’improvviso da dietro una catasta di scatoloni. Portava una pila di
fascicoli in mano e andò ad appoggiarli su una scrivania!
“Qual è il
problema?”, gli risposi, “L’unico problema che ho io è che mi trovo qua, senza
sapere perché, e credimi, vorrei tanto capire cosa sta succedendo!”
“Beh, caro mio,
se stai qua un motivo di certo c’è. Pensaci bene, Ernestino! Che stavi
combinando?”
“Che stavo
combinandooo? Beh, stavo passando per strada, ho visto una coda di soggetti
alquanto improbabili, mi sono fermato e mi hanno trascinato dentro a questa
storia, con una tra l’altro, la Gigliotta, che invece di stare qui ora con me
in mezzo a sto lordume di cose, se ne sta ancora lì seduta comoda sul sofà a
giocare col suo cazzo di telefonino… il quale per giunta per poco non mi faceva
schiattare col suo trillo maledetto…”
“Io gliele
canterei a quella, ma chi si crede di essere? Mica siamo a casa sua… Senti, va
di là e diglielo che quel telefono o lo chiude o glielo metti tu in un posto
dove non glielo trovano neppure se le fanno i raggi X!!!….”
“Guarda, hai
capito tutto! E’ proprio quello che voglio fare! Ora vado…, da che parte?!”
“Di là, di là,
suona che ti aprono.”
!GlinGlon! “Chi va là?”
“Sono
Ernesto”
“Ernesto chi?”
“Maltagiato,
Ernesto Maltagliatooo…”
!Clack! Fece la
mastodontica serratura. “Benvenuto nella stanza numero due, Maltagliato!”
La porta di
scatto si socchiuse lasciando intravedere un poco più di luce. Una luce
artificiale, però. La stanza era assolutamente vuota. C’era solo una scrivania bianca,
sgombra di carte o cancelleria, ma con una lampada anch’essa bianca, molto
forte, che era l’unica fonte di luce, poi una sedia dove stava seduto un notaio
(almeno credo che fosse un notaio, la faccia ce l’aveva tutta!) e un’altra
sedia, dove mi disse che dovevo accomodarmi io.
“Bene
Maltagliato, mi dica che intende rispondere alla signorina Gigliotti.”
“Prego?”
“Non facciamo
notte, Maltagliato, mi dica che ha deciso di rispondere alla Gigliotti!”
Ho pensato
subito che forse a questi gli mancava qualcosa, nel cervello intendo. Decisi
che era meglio dargli corda, si fa così coi matti, no?...
“Beh, guardi, le
risponderò molto chiaramente che se non spegne quel maledetto telefono glielo
infilo diretto a mo’ di supposta nello sfintere, e poi vediamo se continuerà a
piacerle Strauss! Ora posso andare?”
“Ma che dice, ma
che dice, Maltagliato! Ma senta la posso intanto chiamare solo Ernesto?”
“Ach, direi che è meglio…”
“Caro Ernesto,
ma le pare modo di rispondere a una signorina?! Che penserebbe sua madre? E che
penserebbero i suoi colleghi? Suvvia, una persona così ammodo, Ernesto…”
“Anche questo è
vero… D’altronde sono una persona ammodo, sì, ammodo è il termine esatto… Allora guardi, potrei semplicemente dirle che
quel telefono mi disturba e che potrebbe metterselo… in borsetta, magari in
modalità silenziosa. Che dice, notaio, mi pare più da me come cosa, no?”
“Bravo Ernesto,
visto che ha trovato da solo la risposta migliore?! Vada vada…”
!Click! E la
porta opposta a quella da dove ero venuto si aprì dolcemente, accompagnandosi
fino allo stipite.
Ero di nuovo
nella prima stanza, la numero uno. La Gigliotta, come immaginavo, stava ancora
accucciata sul divano a trastullare il telefono. E io da vero gentiluomo presi
posto davanti a lei e le sciorinai dolcemente la frase appena detta al notaio.
Beh, volete
sapere che rispose la maledetta??! Con tutta la freddezza che neppure in uno
stabilimento dell’Algida potrete trovare, quella mi disse: “Guardi Maltagliato,
non c’è scritto da nessuna parte che io debba serrare in borsa il telefono. Se
proprio le dà fastidio può accomodarsi da un'altra parte, non è un problema
mio.” E con questo per lei l’argomento era chiuso.
Non scherzo, stavo per schiaffeggiarla,
verbalmente intendo! E l’avrei fatto se l’occhialuto non mi avesse di nuovo
preso sottobraccio e riportato attraverso lo stesso cunicolo alla stanza numero
tre!
Roba da non crederci. Stavo di nuovo a discutere
con l’energumeno, che poi a dire il vero era quello che la capiva meglio di
tutti.
“Che ti è
successo adesso? Mi sa che quelli ti stanno prendendo in giro… Che t’ha detto
la tipa in salottino?”
“Che m’ha detto?
Vuoi proprio saperlo? Mi ha detto che il problema non è suo, e che me la posso
metter via, il telefono lei lo usa come e quando le piace!”
“Vipera! Senti,
se io fossi in te, le direi che non ha nessun diritto di fare affermazioni del
genere, anzi, che se proprio vuole saperlo tu sei un avvocato, e che le farai
causa, per disturbo della quiete pubblica! E che in ogni caso, lei è una
maleducata di prim’ordine, indisponente e sfacciata! Che vada a imparare le
buone maniere prima di muovere il culo fuori di casa!”
“Cazzo, mi hai
tolto le parola di bocca! Vado!”
E così mi
ritrovo davanti al notaio che: uno, si ricorda di chiamarmi Ernesto, solo; due,
mette il solito disco e comincia a raccontarmi come sono davvero; tre, mi
convince; quattro, mi congeda ammansito come una pecora.
E rieccomi alla
uno.
“Allora
signorina Gigliotti. Capisco alla perfezione la sua necessità di parlare col
mondo intero e proprio per questo non le ho chiesto di spegnere il telefono, ma
semplicemente di togliere la suoneria. Ecco, magari potrebbe pure lasciare la
vibrazione, che forse le fa anche piacere, e così lei fa un passo verso di me e
io ne faccio uno verso di lei. Che dice?”
Beh, che vi
sembra? Lo so, lo so, mi sono lasciato un po’ prendere la mano dall’ironia, ma
che ci posso fare, sono fatto così. Comunque sono stato accondiscendente.
Assolutamente accondiscendente. Almeno è quello che penso io. E lei? La
Gigliotta sapete che pensa, se pensa? Pensa, che sia stato troppo ironico. E mi
dice che se faccio altre insinuazioni di questo tipo mi denuncia per molestie
sessuali perché lei, lei sì è avvocato, e al telefono con mezzo mondo ci sta
per lavoro. E che se sono avvocato pure io dovrei saperle certe cose, ma che
pensa anche che proprio perché non so certe cose il mio telefono non squilla
mai!
Ecco, la sto
mandando a quel paese, e…. invece mi trovo alla tre, di nuovo.
L’energumeno mi
guarda, ci siamo capiti.
Suono quel cazzo
di campanello blindato (GlinGlon). Il notaio apre. Prima che riesca neanche a
dire buongiorno lo sorpasso e con una spallata apro la porta che conduce alla
uno. L’energumeno mi segue.
Ecco la
Gigliotta. Alza lo sguardo e mi fissa con supponenza.
“Vaffanculo Gigliotta”,
le dico, “fanculo tu e il tuo telefonino!”
E senza neppure
attendere risposta, che tanto mica valeva la pena, imbocco la porta ed esco in
strada. L’energumeno la sbatte, la porta, dietro di me, chiudendola in faccia
alla professoressa. Poi ci guardiamo,
gli stringo la mano e andiamo assieme a farci una birra.
Ora ripensando a
quanto accaduto mi viene da ridere.
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